Con il Decreto Liquidità, il legislatore ha introdotto diverse disposizioni integrative e correttive alla disciplina della crisi d’impresa per fronteggiare gli impatti che l’emergenza COVID-19 ha avuto sull’economia delle imprese. 

Il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 15, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, 

le cui disposizioni entreranno in vigore dal 1° settembre 2021, rielabora le modalità di gestione della crisi e di insolvenza dell’imprenditore.

L’obiettivo del decreto è quello di mettere a punto gli strumenti per anticipare l’emersione della crisi e limitare l’aggravarsi delle condizioni economiche dell’azienda, in considerazione del continuo evolversi del panorama economico e sociale.

Introduzione dello stato di crisi 

Una delle principali novità del nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza è rappresentato dall’introduzione della definizione di “stato di crisi”.

L’art. 2, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 14/2019 identifica la crisi con ‘‘lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate’’.

La definizione di stato di crisi risultava necessaria al fine di colmare una lacuna normativa della Legge Fallimentare che si limita a precisare, in riferimento all’accesso al concordato preventivo, che per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza.

La definizione di stato di insolvenza e stato di crisi

L’introduzione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha portato a considerare la crisi come una fase fisiologica del ciclo di vita dell’azienda e viene posta l’attenzione, non più sull’imprenditore coinvolto nella crisi, bensì sull’azienda.

La riforma ripropone la definizione data dall’art. 5 della L.F. di stato di insolvenza, quella condizione in cui si trova il debitore quando diventa inadempiente o dimostra, attraverso altri fattori, di non riuscire più a far fronte alle proprie obbligazioni con regolarità. Quindi, lo stato di insolvenza rimane fermo ad una incapacità irreversibile dell’imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni.

Importante è, invece, la definizione da parte del legislatore della nozione di “crisi” che corrisponde ad uno stato di squilibrio economico-finanziario reversibile che può determinare l’insolvenza, nel caso in cui non viene affrontato in modo tempestivo.

La Direttiva 2019/1023/UE

Con l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. del 12 gennaio 2019, n. 14, l’Italia ha recepito la nozione “ampia” del c.d. “stato di crisi”, di cui alla Direttiva 2019/1023/UE, assorbendo altresì parte dei contorni della disciplina della “reorganization” statunitense. 

L’effetto della novella è stato l’ampliamento della platea dei soggetti che possono beneficiare dei c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva” (includendo non soltanto coloro che sono in uno stato di “insolvenza manifesta”, ma anche quei soggetti per cui si ravvisa il sussistere di uno stato di “pre-insolvenza” o di “insolvenza potenziale”), ossia dei progetti di ristrutturazione del debito. 

In questo ambito, è consentito al debitore in “stato di crisi”, di ristrutturare il debito contratto nei confronti dei creditori, al fine di evitare più gravi procedure concorsuali, tra le quali figura il fallimento.

La nuova nozione di “stato di insolvenza” comunitaria discende in larga parte dall’atteggiamento di matrice più anglosassone (o comunque più vicina ai Paesi del common law), supportato altresì da numerosi studi economici, secondo il quale sarebbe essenziale concedere una seconda opportunità al debitore che si trovi in stato di difficoltà economico-finanziaria. 

La Direttiva 2019/1023/UE, armonizzando in parte la materia di ristrutturazione e insolvenza, è animata proprio da questo spirito, ossia dall’idea che una tempestiva e rapida ristrutturazione del debito sia non solo favorevole ai creditori, ma all’economia nel suo complesso, riducendo i costi e i fenomeni di forum shopping, nonché evidenziando che, nei Paesi dove la ristrutturazione del debito è anticipata e più diffusa, i tassi di recupero per i creditori sono più alti. 

Ovviamente, essendo l’impostazione dell’Unione Europea diametralmente opposta a quella di tradizione delle giurisdizioni civil law, la stessa ha attirato su di sé numerose critiche, specie dalla dottrina tedesca e da quella nazionale. In particolare, è stato evidenziato che un allargato ed eccessivo utilizzo dei quadri di ristrutturazione preventiva comporterebbe, non soltanto un’illegittima lesione del diritto del creditore a vedere soddisfatto pienamente il proprio credito, ma altresì il rischio che la procedura possa essere utilizzata come un “rifugio” per le imprese in dissesto che dovrebbero essere liquidate.

Poichè la nozione di crisi, dopo l’intervento della Direttiva 2019/1023/UE, ricomprende anche il pericolo di futura insolvenza e, pertanto, può essere suscettibile alle strumentalizzazioni commentate, la nozione in esame deve ricomprendere solamente le situazioni prodromiche rispetto all’insolvenza irreversibile vera e propria e suscettibili di degenerare in quest’ultima, dunque, situazioni comunque fisiologicamente differenti da quella dell’insolvenza. 

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